Blog di Paolo Morazzi: Anteprima ""

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mercoledì 24 novembre 2010

Crisi

Per strada 
ridotti 
a guardarci
con sguardo 
di compassione 
misto
a geografia 
economica.

domenica 21 novembre 2010

Una vita tra le guerre – di Teresina Ferrati

Quando ero bambino ricordo "la zia Mora" ovvero Teresina Ferrati, sorella della mia nonna materna, che passava a casa nostra per farmi le iniezioni prescritte dal medico.

Ne avevo paura e invece era ed è una donna straordinaria nella Sua umanità.
Una donna che ha dedicato tutta la sua vita ad aiutare a far crescere i numerosissimi nipoti e che ora, quasi una beffa del destino, trascorre i suoi giorni nella casa di riposo per anziani di Adria.
Pubblico un Suo racconto, premiato al Concorso letterario riservato agli anziani “Parole Ritrovate” di Milano nel 2009.
Un doveroso atto d'affetto a Lei e una sorta di tributo alle nostre comuni radici.

Io sono nata in mezzo alle due guerre, nel 1917, il ventuno di giugno a Cà Labia, una località vicino a Cavarzere, in provincia di Venezia.
Mia mamma si chiamava Elvira e mio papà Arturo. A casa eravamo in undici fratelli di cui io sono l’ottava. Anche io ho sempre sentito l’affetto che aveva la mamma per me, ricordo che da piccola avrei desiderato più coccole: “Mamma ho tanta voglia che mi prendi in braccio “ le dicevo. E lei: “bambina mia, come faccio a prenderti in braccio che ho altri tre bambini più piccoli di te”.
Talvolta la sera (e mi capita anche ora) sentivo crescere dentro un sentimento di profonda nostalgia, e allora le chiedevo: “Mamma, ma perché mi vengono queste cose?” e lei rispondeva “Non lo so bambina mia, sarà nella tua natura” e poi mi consolava.
In famiglia siamo stati molto legati. La mamma si adoperava molto anche per i vicini della borgata, andava a fare le punture a chi ne aveva bisogno e la gente si rivolgeva a lei per esprimere qualche piccola necessità.
Al tempo del Duce chi aveva tanti figli non pagava le tasse, così per dimostrare di avere una famiglia numerosa ed esentarci ci facemmo una fotografia da inviare a Roma. Purtroppo le tasse le dovemmo pagare comunque!
I miei fratelli e sorelle sono: Ines, nata il 6 gennaio 1904; Giovanni Riccardo nato il 18 settembre 1906; Maria, nata il 22 marzo 1908; Ferruccio, nato il 9 aprile 1909; Giuseppe, nato il 24 aprile 1911; Gemma, nata il 2 maggio 1913; Angelina, nata il 31 maggio 1915; Lea, nata il 17 settembre 1920; Wanda, nata il 10 novembre 1922; Valentino, nato il 24 aprile 1925.
In famiglia, grazie al cielo, non abbiamo mai sofferto la fame. La sorella di mia nonna (zia del papà) aveva sposato un conte veneziano e possedeva una vasta tenuta vicino all’Adige (nella frazione di Lezze), di cui il papà era stato nominato direttore.
A casa avevamo un tavolo lungo tre metri.
Dormivamo tutti in letti singoli: cinque ragazze in una stanza, le due sorelle più vecchie in un’altra, i fratelli in stanza assieme a mamma e papà nella loro stanza.
Io non mi sono mai occupata più di tanto delle faccende di casa perché ho sempre lavorato fuori, dapprima in un’assicurazione con il papà e poi, a soli dodici anni, al Lotto che era gestito da alcune mie cugine.
Dopo il matrimonio di un mio fratello e la nascita dei suoi due bambini, in casa lo spazio non era più sufficiente per tutti e così abbiamo convinto papà a cambiare casa.
Lui non voleva perché quella era la casa dove era nato ed apparteneva a suo padre, ma la mamma desiderava avere anche l’acqua corrente in casa (dovevamo andare infatti ad attingerla da una pompa, essendo distanti un chilometro dal paese).
Inoltre accadeva spesso che papà fosse bersaglio di gente che lo credeva fascista e che ci tirava i sassi in casa o ci disturbava di notte schiamazzando. Così, qualche giorno prima del mio quarantesimo compleanno, andammo ad abitare in una casa più grande e più vicina al paese.
Siamo andati a scuola dalle Suore Canossiane dove abbiamo frequentato le classi prima e seconda, ma la guerra ha interrotto i miei studi e ha fatto iniziare giorni che mi rimarranno per sempre impressi nella memoria.
Ho frequentato l’Istituto delle Suore Canossiane, al mattino andavo a scuola e di pomeriggio imparavo a ricamare.
In quell’ambiente mi sentivo veramente bene, trovavo così tanta pace da desiderare di consacrarmi per poi andare ad assistere le popolazioni povere dell’Africa.
Questo mio sogno però non si realizzò perché non riuscii ad allontanarmi dalla mia famiglia: mamma si ammalò ed io sentivo di dover rimanere a casa perché avevano bisogno di me.
Il 1939 fu l’anno in cui Mussolini dichiarò l’entrata in guerra dell’Italia.
Così come avvenne durante la guerra del 15’-18’, anche durante la seconda guerra mondiale ci fu requisita mezza casa per darla ai militari.
A vent’anni sono stata assunta al telefono pubblico, che era un servizio dato in appalto. Mia sorella ed io ci davamo il cambio in turni di 14 ore consecutive, dalle ore 7 di mattina alle 9 di sera e d’estate lavoravamo anche di notte. Quando lei si sposò andai avanti da sola. L’apparecchiatura con la quale lavoravo consisteva in quadro con tutte spine corrispondenti ai numeri telefonici ed io dovevo mettere in comunicazione le persone. Eravamo collegati con Adria, Chioggia, Padova e Venezia.
All’epoca solo poche case private avevano il telefono, il resto erano esclusivamente uffici. Poi la sera tenevo la contabilità.
Durante la guerra era mio il compito di dare l’allarme quando a Padova erano avvistati gli aeroplani, venivo avvisata e subito suonavo la sirena, mettevo in comunicazione i Vigili del Fuoco con Padova e abbandonavo l’ufficio.
Poi i Vigili del Fuoco avevano il compito di dare il cessato allarme e si tornava al lavoro.
Essendo il telefono pubblico all’interno del Municipio, quando scappavo dovevo uscire da una porticina secondaria e per due volte mi capitò che una scheggia di bomba mi cadesse a un “palmo dal naso”. Una di queste schegge pesava tre chili e mezzo..!
Mi è capitato spesso di svenire per strada mentre scappavo dopo aver dato l’allarme ed un giorno, in cui svenni in piazza, mi dovettero trascinare per le gambe per duecento metri, fino alla casa di una zia.
Io esercitavo il mio lavoro in qualità di Tenete, essendo stata militarizzata in quel periodo. Si poteva telefonare solo esibendo un permesso rilasciato dai carabinieri.
Capitò spesso però che i militari tedeschi volessero telefonare senza permesso ed io dovevo oppormi, anche se per intimorirmi mi mostravano le pistole e mi dicevano: “ se non mi fai telefonare questi sei colpi sono tutti per te”. Io rispondevo che come loro ero tenuta ad obbedire agli ordini dei miei superiori.
In quel tempo mi capitò di imbattermi involontariamente nella vicenda del dottor Busonera. Il nostro medico di famiglia era molto amico di papà e prima di morire lasciò scritto nel suo testamento che il suo successore si sarebbe dovuto occupare della mia famiglia senza pretendere alcuna ricompensa. Papà avrebbe voluto diventare medico e così ricordo che volentieri si intratteneva con lui a parlare e cercava di tenersi informato sulle notizie che riguardavano la medicina.
Il dottor Busonera era partigiano e servendosi spesso del telefono pubblico aveva destato i sospetti dei tedeschi che credevano si mettesse in comunicazione con gli americani per concordare l’invio di pacchi di viveri ai partigiani. Io, che ero veramente all’oscuro di tutto, quando mi trovai davanti ai tedeschi che mi volevano far confermare i loro sospetti risposi di non sapere nulla. Allora per indurmi a confessare mi prelevarono e mi portarono alla casa del fascio dove mi imprigionarono in uno stanzino stretto e buio. Fu una telefonata di un mio superiore a farmi liberare qualche ora dopo, mentre lentamente stavo realizzando quello che mi era accaduto.
Qualche tempo dopo venni sapere che il dotto. Busonera era stato arrestato, forse cadendo vittima di una imboscata, torturato ed imprigionato in un carcere a Padova dove fu infine impiccato. Il suo corpo fu esposto per tre giorni in una piazza che ora porta il suo nome.
Quando iniziò la guerra le mie sorelle ed io eravamo fidanzate e i nostri fidanzati non abitavano in paese. Dopo i primi bombardamenti i fidanzati delle mie sorelle vennero subito ad assicurarsi che non fosse accaduto loro niente ma il mio fidanzato non arrivò che al terzo giorno di bombardamenti. Questo fatto, in un momento così drammatico, mi fece comprendere che non mi voleva abbastanza bene e fu così che l’allontanai per sempre e dissi a me stessa che se gli uomini erano così, allora non mi interessavano. Di fatto non mi sono sposata, anche se nel corso della guerra un ingegnere austriaco, che avevo conosciuto perché veniva al telefono pubblico, mi aveva fatto capire che si era innamorato di me. Mi scrisse quattro lettere anche quando partì per l’America, ma io non gli risposi per non illuderlo.


La guerra è finita davanti alla porta di casa mia.


Ricordo così tante file di cavalli da una parte all’altra della strada, che se si voleva attraversarla bisognava passare sotto le loro pance: erano i soldati che provenivano dalla Romagna e passavano di lì per andarsene, attraversando il ponte dell’Adige.
Nei giorni più pericolosi io ed una parte della famiglia ci rifugiammo con la mamma in una casa di campagna, mentre papà restò nella nostra casa. Io facevo un po’ la spola per procurare coperte e tutto ciò che poteva servire. Ricordo che nella metà casa requisita c’erano sedici soldati austriaci, tra i quali anche alcuni sordomuti che erano ritenuti particolarmente abili a percepire il rumore degli aerei.
A Cavarzere la guerra terminò il 27 Aprile 1945 e lo stesso giorno dei bombardamenti ripetuti rasero al suolo l’intera città che per questo motivo fu denominata la seconda Cassino.
La guerra finì lasciandoci tutti senza lavoro e con la casa danneggiata, da ricostruire. Di questo si occupò un mio fratello che lavorava per un’impresa edile.
A me proposero un trasferimento al telefono pubblico di Adria oppure a Padova, ma bisognava lavorare anche di notte, e papà non acconsentì.
A casa, con le mie sorelle, imparai qualche lavoro di sartoria e papà fu assunto al Consorzio Agrario.
La guerra era ancora in corso quando, il 4 gennaio del 1942, morì mio fratello Giuseppe mentre era in fabbrica a lavorare. La mamma diceva che quel giorno mentre a casa gli rifaceva il letto, sentì il presentimento che Giuseppe non sarebbe più tornato.
Poi la mamma si ammalò ed io mi dedicai alle sue cure.
Nel 1951 l’alluvione ci costrinse a lasciare la nostra casa, che era stata invasa da settanta centimetri d’acqua.
Dopo la morte di mamma e papà io mi sono sempre dedicata ad accudire i nipoti. Quando le mie sorelle non avevano più posto per le culle nelle camerette, io dividevo la stanza con qualcuno dei bambini e per me era una gioia grande.
Dopo la fine della guerra tornarono anche dei momenti di serenità e spensieratezza: andavo in vacanza al mare con i nipoti, andavo al cinema, partivo in bicicletta da Cavarzere per andare a teatro ad Adria ad ascoltare l’opera. Ricordo che la prima opera che diedero fu la Bohème. Poi ebbi il privilegio di ascoltare anche beniamino Gigli e Toti Dal Monte….. che voci indimenticabili!
Certo la guerra ed alcune vicissitudini della mia famiglia imposero momenti tristi alla mia giovinezza, e questi momenti non li vorrei rivivere più… ma quanto al tempo dedicato ai miei cari, rifarei tutto esattamente come ho fatto.

Teresina Ferrati

venerdì 19 novembre 2010

Orme

La sabbia col vento ricopre orme di passi, momenti di vita...! Avanti, altre orme si compongono, nell'eterna sfida.. La sabbia 
col vento
ricopre 
orme di passi
momenti 
di vita.
Avanti 
altre orme
si compongono
nell’eterna 
sfida.

mercoledì 10 novembre 2010

Attimi

Attimi di gioia
i sorrisi 
a brillare 
come stelle
nei tuoi occhi,
che illuminano
la mia via.

Il destino

E’ un teatro
il destino
dove non sempre
riusciamo a barare
sul nostro ruolo
di marionette.

martedì 9 novembre 2010

Al lago



Al lago
cm. 10,9 x 15,0
Acrilico e smalti su tavola
(D/060)